Ricerca

Dossier Ricerca

Partner

orion

Centro Studi Polaris

polaris

 

rivista polaris

Agenda

<<  Agosto 2022  >>
 Lu  Ma  Me  Gi  Ve  Sa  Do 
  1  2  3  4  5  6  7
  8  91011121314
15161718192021
22232425262728
293031    

NOEVENTS

Altri Mondi

casapound
Comunità solidarista Popoli
L'uomo libero
vivamafarka
foro753
2 punto 11
movimento augusto
zetazeroalfa
la testa di ferro
novopress italia
Circolo Futurista Casalbertone
librad

Sondaggi

Ti piace il nuovo noreporter?
 
Storia&sorte
Quattro ruote per il Führer PDF Stampa E-mail
Scritto da Ricciotti Lazzero "storia illustrata" nr.338 del 1986   
Giovedì 09 Settembre 2004 01:00

La chiameremo Volkswagen, auto del popolo. Così volle il capo del Reich deciso a fare decollare anche in Germania, come era accaduto in America, la motorizzazione di massa. L’obiettivo era di produrre 1 milione e mezzo di vetture ogni anno. Ma lo scoppio della guerra mandò all’aria il progetto…

«Herr Doktor Porsche: voglio un'automobile popolare, ein Kleinauto [una piccola auto] con la quale gli operai tedeschi possano andare in fabbrica motorizzati come gli americani, e non più in bicicletta. Il prezzo non deve superare i 1.000 marchi. Mi presenti delle proposte».
La Volkswagen, cioè l'«auto del popolo», nacque cosi, nell'autunno del 1933, con un monologo di Hitler davanti a Ferdinand Porsche, pilota austriaco e costruttore di vetture da corsa, convocato a Berlino, alla cancelleria del Reich. Il leader nazista, assunto il potere con le sue «camicie brune», si preparava a far piazza pulita di tutto cche potesse ricordare la repubblica di Weimar e la sua traballante democrazia. Pochi in Europa compresero allora il suo programma, ma agli industriali tedeschi fu subito chiaro che quell'uomo avrebbe dato, con il rapido riarmo della Germania, una spinta impressionante all'economia nazionale. La Reichswehr (cioè l'esercito democratico del primo dopoguerra) non era ancora diventata la Wehrmacht, ma Hitler, pur legato dalle restrizioni del trattato di Versailles, sapeva come districarsi. La Volkswagen è, appunto, uno dei tanti episodi del riarmo nazista.

Tornato a Stoccarda, Porsche si mise subito al lavoro e il 17 gennaio 1934 era già in grado di presentare al führer un memorandum. «La vettura popolare che io concepisco» scrisse «non è un'automobilina di misure e di prestazioni ridotte, ma una macchina che può entrare in concorrenza con tutte le altre della sua classe. Perché una tale macchina possa trasformarsi in una vettura popolare sono necessarie soluzioni totalmente nuove». I dati tecnici intorno a cui lavorare dovevano essere i seguenti: motore posteriore a sogliola (cioè a cilindri contrapposti) di 1.250 centimetri cubici raffreddato ad aria, potenza massima 26 Hp a 3.500 giri al minuto, passo 2,50 m, carreggiata 1,10 m, peso a vuoto 650 kg, velocità massima 100 chilometri all'ora, capacità di superare pendenze del 30 per cento, 8 litri di benzina ogni 100 chilometri.

Secondo i calcoli di Porsche quell'auto non poteva costare meno di 1.500 marchi. Ma alla firma del primo contratto, il 22 giugno 1934, con la Rda (Reichsverband der deutschen Automobilindustrie, Associazione del Reich dell’Industria automobilistica tedesca), per una serie di 50.000 vetture, il costruttore bavarese si vide ridurre drasticamente la cifra a 900 marchi. I nazisti gli diedero 20.000 marchi al mese per le spese di proget

 
L’ARTE GLADIATORIA RIVIVE IN ORIENTE. PDF Stampa E-mail
Scritto da Giampaolo   
Mercoledì 08 Settembre 2004 01:00

Nelle arti marziali filippine , in particolare nel Kali , si possono rintracciare tecniche portate in Oriente da mercenari italiani, veri eredi dei gladiatori, al seguito dei primi esploratori portoghesi.

Quando Magellano giunse nelle Filippine aveva all’interno del suo equipaggio diversi italiani, quasi tutti mercenari ed unici eredi dell’Ars Gladiatoria romana, la quale era sopravvissuta nei secoli attraverso le varie scuole di combattimento sparse lungo la penisola italica e che in alcuni casi era stata addirittura codificata , come nel “Flos Duellatorum” del maestro d’armi friulano Fiore dei Liberi. Nel Kali, arte filippina del combattimento totale , ritroviamo , specialmente nella scherma di coltello e nell’uso delle varie armi da taglio , colpi , ma anche leve e chiavi articolari mutuate direttamente dall’antichissima arte gladiatoria romana. Lo stesso vale per le altre forme di combattimento sviluppatesi posteriormente o contemporaneamente a quella filippina, come il Silat indonesiano. La piu’ antica tradizione guerriera d’Occidente rivive in Oriente.

("Le arti marziali italiane" di Maurizio Maltese, Edizioni Mediterranee.)

 
Giuliano e la Mater deorum PDF Stampa E-mail
Scritto da Claudio Mutti   
Mercoledì 08 Settembre 2004 01:00

Che la religione solare avesse uno stretto rapporto con il mito di Cibele e Attis e con il rituale corrispondente, lo dimostra l’esistenza di altari dedicati alla Madre degli dèi da parte di pontefici di Helios (1).

Questo rapporto è ben evidente nell’opera di Giuliano: molti elementi in comune con l’Inno al Re Helios si trovano nell’Inno alla Madre degli dèi (2), che l’Augusto scrisse a Costantinopoli in una sola notte, tra il 22 e il 25 marzo 362, ossia nel periodo dell’equinozio di primavera, quando una festa annuale riattualizzava il mito di Cibele e Attis. Variamente attestate da Erodoto, Pausania e Luciano (3), esistono di questo mito due versioni fondamentali, “che possiamo chiamare lidia e frigia dai paesi che sono teatro del mito stesso” (4); ma qui sarà opportuno riassumere il mito con le parole di Salustio: “Si dice che la Madre degli dèi, avendo visto Attis coricato presso il fiume Gallo, se ne innamorò e, preso il suo pileo adorno di stelle, glielo mise in capo, e in seguito lo tenne con sé; ma egli, innamoratosi d’una ninfa, lasciata la Madre degli dèi, si unì alla ninfa. Ed è per questo che la Madre degli dèi fa sì che Attis impazzisca e, tagliatisi i genitali, li lasci presso la ninfa, poi ritorni di nuovo a convivere con lei” (5).

Le feste della Gran Madre cominciavano alle Idi di Marzo, con la processione dei cannofori che si dirigevano al tempio di Cibele per depositarvi le canne del fiume Gallo. Seguiva poi, per alcuni giorni, un digiuno di purificazione che comportava l’astinenza dal pane, dal maiale, dal pesce e dal vino. Il 22 marzo la confraternita dei dendrofori si recava nel bosco di Cibele per abbattere il pino consacrato ad Attis; spogliato quasi completamente dei rami, avvolto in bende di lana, ornato degli oggetti pastorali di Attis (vincastro, siringa, cembali) e delle violette nate dal suo sangue, il tronco veniva trasportato nel santuario, dove era esposto alla venerazione pubblica, come un cadavere prima della sepoltura. Le manifestazioni di lutto (lamentazioni, percussione del petto ecc.) giungevano al culmine il 24 marzo (giornata del sangue). All’interno del recinto sacro venivano eseguite musiche frenetiche, danze vorticose e flagellazioni, finché, all’acme dell’estasi, aveva luogo l’autoevirazione dei sacerdoti del culto, i Galli. (Nel mondo greco-romano l’evirazione dei Galli venne sostituita da quella di un toro o di un ariete). Aveva luogo poi la sepoltura del pino, che rimaneva nei sotterranei del tempio per un anno intero, fino al taglio del nuovo pino. Al calar delle tenebre aveva inizio la veglia. Ad un certo momento, un sacerdote introduceva un lume nel santuario, ungeva le gole dei lamentatori e pronunciava queste parole: “Confidate, o iniziati: il dio è salvo; e a noi dalle pene verrà salvezza” (6). Il 25 marzo, giorno che si riteneva coincidesse con l’equinozio di primavera, si celebravano le Ilarie, festa del Sole e dell’inizio del ciclo annuale; in quel giorno avveniva la resurrezione di Attis, che rappresentava la liberazione delle anime dal ciclo della generazione. Con una processione solenne veniva esaltata la ierogamia di Cibele ed Attis: in mezzo allo strepito dei flauti, dei cembali e dei tamburini, la Gran Madre avanzava su di una quadriga con Attis al proprio fianco. Dopo un giorno di pausa e una cerimonia di purificazione, il 27 marzo le feste giungevano al termine: tra canti e danze, la dea ritornava nel suo santuario.

 

Coloro che risvegliano i popoli: Kurt Eggers PDF Stampa E-mail
Scritto da Harm   
Mercoledì 08 Settembre 2004 01:00

Se c’è un personaggio emblematico tra coloro che risvegliano i popoli questo è senza dubbio il “poeta-guerriero” in cui s’incarnano il lirismo ed il coraggio, virtù essenziali a chi vuole far sentire la propria voce quando bisogna salvare la patria dal nulla o dal sonno. Affascinato fin dalla giovinezza dall’idea del sacrificio fondante, Kurt Eggers ha voluto che la sua vita fosse l’immagine della sua opera e che il suo messaggio alla gioventù fosse sigillato dal suo stesso sangue.

Pochi uomini hanno esaltato con tanta forza il sacrificio della “morte in combattimento”. Poeta, scrittore, drammaturgo, storico, polemista scelse di affrontare il suo destino dalla torretta di un panzer alla testa di una formazione corrazzata di volontari germanici.

Ucciso in combattimento nel trentottesimo anno della sua vita Kurt Eggers ha incarnato fino al suo ultimo minuto l’ideale che aveva esaltato nei suoi libri: l’incontro indissolubile tra le due sue vocazioni quella dello scrittore e quella del combattente. Vocazioni unite eternamente, oltre ogni legame di parte, fino ad acquisire un significato eroico essenziale. Nato a Berlino il 10 novembre 1905 il giovane Kurt Eggers non ha nemmeno nove anni quando scoppia la prima Guerra mondiale. Il bambino è affascinato dai racconti di guerra dei più grandi e sogna di diventare anch’egli un soldato. Dagli undici ai tredici anni Kurt riesce ad essere ammesso al veliero-scuola “Berlin”. Ma dopo la disfatta tedesca prende la decisione d’entrare nella scuola per cadetti di Plön. La reazione che egli proverà in quel frangente si ritrova nelle prime pagine del magnifico libro “I proscritti” di Ernst von Salomon più vecchio di Kurt di tre anni. L’adolescente ha mantenuto i contatti con il vecchio comandante della nave-scuola e diviene suo attendente partecipando ai combattimenti contro gli spartachisti nel 1919 e al tentativo di putsch di Kapp nel 1920. Terminate queste esperienze guerresche torna sui banchi si scuola. Non ha ancora sedici anni quando lascia l’aula scolastica per unirsi ad un Corpo Franco che combatte contro i polacchi in alta Slesia nel 1921. Il giovane volontario Kurt Eggers, staffetta della formazione “Schwarze Schar” (Schiera Nera), parteciperà alla battaglia sull’Annaberg luogo simbolo della saga dei Freikorps. Dall’esperienza di questo assalto trarrà il racconto “Von jungen Herzen” ed una poesia:

Le grigie file dei morti cospargono le alture

Davanti all’Annaberg.

Le granate esplodono in mezzo ai gruppi d’assalto dei corpi franchi

Davanti l’Annaberg

Lanzichenecchi, combattiamo abbandonati e traditi dalla patria,

i fucili sono caldi e i cuori duri come la pietra

 

Il giorno in cui morimmo tutti PDF Stampa E-mail
Scritto da noreporter   
Mercoledì 08 Settembre 2004 01:00

L’8 settembre del ’43 non segna soltanto la data del Tradimento, il passaggio agli ordini di chi bombardava le nostre città, i nostri ospedali, i nostri orfanatrofi seminando le strade di bombe nascoste in bambole, in giocattoli, in penne, per mutilare perfidamente i bambini, ma rappresenta un tornante storico: da quel giorno nel mondo, anche tra chi trasse vantagio del tradimento, italiano è sinonimo di fifone, di voltagabbana, di essere infimo.

Ezra pound lo ribattezzò Mezzo feto. Di monarchi così se ne conoscono davvero pochi. Già il 26 luglio aveva fatto arrestare alla chetichella Benito Mussolini affidando il governo al Maresciallo Badoglio, noto da tempo immemore per i suoi trascorsi di pessimo militare, di ambizioso, ambiguo e servile massone, di intrigante dirigente calcistico, infine minacciato da un’accusa infamante di criminale di guerra. Quell’8 settembre insieme, il re fellone e il ministro intrallazzone gettarono la Nazione allo sbando, firmando frettolosomante e alla chetichella un armistizio con il nemico che, di fatto, prevedeva e giustificava il tradimento; ovverosia il passaggio dalla parte di chi aveva invaso l’Italia, l’aveva bombardata e continuava a martoriarla.

Fuggirono a sud, tra le accoglienti braccia delle forze che ci trucidavano, senza lasciare ordini certi, gerarchie precise, continuità giuridiche, amministrative.

L’esercito allo sbando non aveva molte scelte. O seguire la via della parola data (e già dal 9 settembre molti si arruolarono in vari corpi di combattimeto, primo tra i quali la Hermann Goering che difese Cassino con un decimo degli effettivi composto di volontari italiani spesso giovanissimi) o quella del “tutti a casa”. Altri si trovarono a far fronte alla naturale rabbia dei tedeschi traditi. E si spacciò più tardi la fierezza di manipoli di prodi come episodi di resistenza. Falso: a Roma in quella che è stata poi chiamata piazza dei partigiani rimasero, l’arma al piede, ufficiali e soldati che avrebbero aderito pochi giorni più tardi alla RSI.

La Repubblica Sociale, per giudizio comune del nemico salvò l’onore, la dignità, le istituzioni ed il vivire civile. E ciò a prescindere dalla sua valenza eroica e della politica rivoluzionaria su cui troppo poco si è insistito.

Quell’8 settembre, che da poco è stato considerato da Ciampi come giorno fondante della repubblica di oggidì, ha trasformato profondamente la concezione che gli italiani hanno di se stessi ed ha fornito nel mondo di noi quell’idea ignobile che si ripete sempre e comunque.

“Gli italiani ? Hanno inventato la Marcia indietro nei carri armati !” “Ho detto alla baionetta, non alla camionetta !”.

Durante la guerra delle malvine un Lord inglese ebbe a dire: “Gli argentini sono per metà spagnoli per metà italiani: se prevale il sangue italiano scapperanno a gambe levate !” Questo non è vero, è ingeneroso, ma è strettamente legato a quei due episodi laceranti: il tradimento infame di quell giorno fondatore e lo scempio canagliesco e indegno di Piazzale Loreto. Da allora abbiamo cessato di essere considerati uomini nel resto del mondo. Come dire che quell’ 8 settembre non solo vide il passaggio dell’Italia dal campo della libertà, della fierezza, dell’autodeterminazione, della giustizia sociale, a quello dell’asservimento ai potentati sfruttatori, alle cupole del Crimine Organizzat

 
LA NUOVA RUSSIA RISCOPRE L’ANTICA RUS PDF Stampa E-mail
Scritto da Noreporter.org   
Domenica 05 Settembre 2004 01:00

Nel vuoto del post-comunismo la Russia neoliberista di Putin riscopre l'antica Rus, la Russia ancestrale e pagana

“Rus” , parola che identificava la Russia ancestrale, pagana e precristiana , precedente a quello che fu l’impero russo, e’ tornata prepotentemente ad imporsi come mito fondante per molti giovani russi.

Non a caso negli ultimi gruppi politici come l'Unita' Nazionale Russa (destra politically uncorrect) hanno raggiunto quota 70000 iscritti. Nella Russia post-comunista che gia' arranca nella tela del ragno neoliberista, svuotata di ogni suo valore spirituale e umano, il proletariato che sostenne il bolscevismo riscopre le sue origini , nell’antica Rus, terra misteriosa e mitica.

Come a dire :” Radici profonde non possono gelare “
 
Quando il Crimine Organizzato dichiarò guerra al mondo PDF Stampa E-mail
Scritto da Gabriele Adinolfi   
Venerdì 03 Settembre 2004 01:00

Sessantacinque anni fa, Francia ed Inghilterra, indotte dalle oligarchie, dichiaravano guerra alla Germania, colpevole di mettere in discussione il monopolio finanziario, aprendo così le ostilità della Seconda Guerra Mondiale. Subiamo ogni giorno di più le conseguenze dell’egemonia planetaria delle mafie.

Il 3 settembre di sessantacinque anni fa la Francia e l’Inghilterra dichiaravano l’avvio della Seconda Guerra Mondiale. Il pretesto: l’entrata delle truppe germaniche nei territori tedeschi che erano occupati dai polacchi per metter freno, dopo diversi ultimatum inascoltati, all’eccidio dei civili. In teoria Francia e Inghilterra volevano garantire l’integrità territoriale dell’alleato polacco. Teoria pura: il 17 dello stesso mese l’armata sovietica occupava oltre metà Polonia ma nessuno si sognava di dichiararle guerra. Anzi, di lì a poco gli “alleati” avrebbero iniziato ad armarla mentre le banche americane avevano iniziato già dal ’19 ed avrebbero proseguito fino al termine degli anni ottanta a mantenerla economicamente in vita. Le ragioni della guerra furono tre: la geopolitica, l’economia e l’odio. Un odio antitedesco, anticlassico ed antieuropeo. Geopoliticamente la ripresa di potenza della Germania metteva in discussione il monopolio mondiale britannico che gli inglesi volevano salvaguardare e al quale gli americani intendevano sostituirsi. Economicamente l’avvento di vaste aree autarchiche, ricche di ogni risorsa economica ed energetica, ed il ridimensionamento delle banche (in Germania venivano soppiantate dalle Casse di Risparmio, una parola maledetta da tutti gli usurai) rischiavano di far saltare un’egemonia planetaria cui i banchieri e la mafia non volevano assolutamente rinunciare. Sin dal 3 settembre l’intenzione tedesca di risolvere pacificamente la controversia fu manifesta. Le lobbies angloamericane tuttavia vollero che la guerra fosse lunga, sanguinosa e devastante: il genocidio europeo era nei loro piani.

Anche tutti i più atroci esperimenti - bombardamenti al fosforo, al napalm (il primo della storia si ebbe nell’agosto del ’44 contro gli italiani al largo di Saint Malo), nucleari, vennero tutti compiuti platealmente da una sola parte.

Il Crimine Organizzato, la cui cupola dominava già gli Stati Uniti, avanzava impietosamente ed inesorabilmente. La grande piovra, dietro la copertura fatua di una presunta democrazia a pretesa globale, avrebbe conquistato, spogliato, devastato, il pianeta, i popoli, l’ambiente. I “liberatori” avrebbero imposto il loro modello che si fonda etologicamente sull’ipnotismo mediatico, sul servilismo diffuso e sostanzialmente su tutti i traffici illeciti, i due principali (insieme al mercato d’armi) essendo quelli della droga e degli schiavi. Per farla breve, il 3 settembre 1939, il Crimine Organizzato dichiarava guerra alla libertà, alla civiltà, all’autodeterminazione, alla dignità dell’uomo e all’identità dei popoli. La sua opera prosegue oggi imperterrita.

 
Forza e gioia PDF Stampa E-mail
Scritto da Adnkronos/Dpa   
Giovedì 02 Settembre 2004 01:00

Germania: all’asta il mega hotel voluto da Hitler sul mar Baltico nel segno di “Kraft durch Freude”. La forza mediante la gioia. Un ricordo di tempi sociali.

Va all'asta il 23 settembre, al prezzo base di 125 mila euro, l'enorme comprensorio turistico fatto costruire da Adolf Hitler sulle rive dell'isola di Ruegen, nel mar Baltico, per garantire una sana vacanza ai funzionari tedeschi. Avveniristica costruzione per l'epoca, l'edificio del 'Prora' e' lungo 4,5 chilometri, poteva ospitare ottomila vacanzieri in 8 mila stanze, tutte vista mare. Ora il governo tedesco lo mette in vendita. Secondo gli storici fu proprio Hitler a volere la costruzione, per mettere in pratica il programma del ''Kraft durch Freude'', la forza attraverso la gioia, ovvero garantire divertimento e vacanza a chi lavora. I lavori del 'Prora' iniziarono nel 1936, ma nel '39, con l'inizio della guerra e l'invasione della Polonia, rallentarono e finirono per essere del tutto sospesi nel 1943. Nessun membro nazionalsocialista ci ha mai passato un solo giorno di ferie, e gli unici tedeschi che hanno soggiornato sull'isola .

 
Danzica tedesca PDF Stampa E-mail
Scritto da noreporter   
Mercoledì 01 Settembre 2004 01:00

Sessantacinque anni fa l’esercito germanico interveniva per arrestare il continuo linciaggio dei suoi connazionali nella città occupata dai polacchi. Francia e Inghilterra coglievano l’occasione per dichiarare quella guerra mondiale che tanto premeva al Presidente americano Roosevelt e all’ineffabile Winston Churchill

Anteprima della Seconda Guerra Mondiale: registrato il continuato massacro dei cittadini tedeschi nella città occupata dai polacchi, dopo una serie di ultimatum senza risposta, alle 4,45 l'esercito germanico irrompe in Polonia mentre la tedesca Danzica, occupata dai polacchi per decisione dei vincitori del ‘18, viene liberata. In meno di tre settimane la Werhmacht piega l’armata polacca. Francia e Gran Bretagna, intanto, il giorno 3 fanno scoppiare la Seconda Guerra Mondiale. Dichiarano guerra a Hitler, evidentemente colpevole di aver salvato la vita ai suoi connazionali. Il 17 l'Armata rossa attacca da Est e occupa metà Polonia. Francia e Inghilterra, cui poco o nulla interessa della nazione polacca, non battono ciglio. Il 27 Varsavia si arrende. È la prima blitzkrieg. Otto mesi più tardi sarà la volta di Parigi. È l’inizio di un lungo conflitto, un olocausto per oltre trenta milioni di europei. Ogni tentativo di pacificazione e di armonia (Hess, Mussolini, Hitler) verrà scientemente rigettato. C’è una cricca di plutocrati angloamericani che ha deciso le sorti per l’Europa: massacri, devastazioni, servitù politica ed economica. L’hanno chiamata Seconda Guerra Mondiale, è stata combattuta eroicamente da milioni di uomini, molti dei quali schierati consapevolmente a difesa della civiltà e della libertà, altri ingannati dalla retorica dei falsi o dai sentimenti micronazionalistici. Dicono che è finita, con la vittoria del Crimine Organizzato. Gli eventi di adesso c’inducono invece a credere che i guerrafondai la stiano proseguendo. Sulla pelle dei popoli.

 
Carbonia splende ancora PDF Stampa E-mail
Scritto da Il Sole 24 Ore   
Giovedì 26 Agosto 2004 01:00

La città fondata dal Duce, a seguito della politica energetica autarchica, è un gioiello architettonico, oggi messo a nuovo.

Benito Mussolini aveva deciso che Carbonia nascesse senza risparmio di uomini e mezzi. Per il Duce, il carbone del Sulcis era importante almeno quanto lo è per il petrolio dell’Irak per Geroge W. Bush. A Carbonia, però, l’ego del fascismo non dovette fare i conti soltanto con le bonifiche e i problemi urbanistici, come a Sabaudia, Latina o le altre due città sarde di fondazione, Fertilia e Arborea.

Carbonia fu la prova del fuoco della cultura dell’organizzazione, la sfida sul campo alla potenza organizzativa dei tedeschi e dei nemici della “perfide Albione”. Nel ’36 i tecnici individuarono in questa zona dell’Iglesiente un bacino carbonifero di alcune centinaia di milioni di tonnellate. Due anni dopo Mussolini in persona inaugurò quello che 24 mesi prima era un progetto visionario degli architetti razionalisti: costruire insieme città e miniera. Nel 1940 i quasi 16 mila minatori trasferiti alla miniera di Serbariu, questo è il suo nome, da Toscana, Sicilia, Veneto e Lombardia batterono il record dei record: 1,3 milioni di tonnellate di carbone grezzo estratto in un anno.

Prima della retorica fascista, che a Carbonia, però, ha lasciato dei piccoli capolavori di architettura: la lampisteria di 2.500 metri quadri progettata da un allievo di Pier Luigi Nervi (l’enorme sala dove i 15 mila minatori ritiravano la lampada prima di scendere nei pozzi) e la città giardino disegnata dall’urbanista ebreo Gustavo Pulitzer. Per non parlare della piazza principale, con il municipio, la chiesa, il cinemateatro e un giardino pubblico, ogni funzione su uno dei quattro lati.

La miniera di Serbariu cessa la produzione, per volere della Ceca, nel 1964. la fine della miniera è la fine di Carbonia. Se ne vanno 20 mila abitanti dei 30 mila “dell’era fascista”. Un declino, anche qui, che col tempo spazza via tutte le testimonianze di un’epoca. La zona mineraria viene smantellata pezzo dopo pezzo: la ventina delle costruzioni in ferro che sormontavano l’ingresso dei pozzi vendute a un rottamaio, la lampisteria diventa ricovero di extracomunitari in cerca di un tetto, il cinema-teatro chiuso in attesa di lavori che non si faranno mai, il municipio trasferito in una costruzione di cemento armato di fronte a quella rigorosa dei razionalisti che l’avevano caratterizzata di una forma cilindrica (il potere temporale che rivaleggia con il campanile, simbolo di quello spirituale).

Una morte cui nessuno sembra fare caso, fino a quando, nel 2002, il deputato sassarese dei Ds, Tore Cerchi, dopo tre legislature a Montecitorio decide di tornare alla sua isola e candidarsi come sindaco di Carbonia […] viene eletto a furor di popolo sulla base di un programma che per un ex comunista non è proprio rituale: far rivivere la Carbonia voluta da Benito Mussolini e dai suoi architetti. […] Oggi, chiunque passasse per Carbonia, vedrebbe qualcosa di molto simile a quello che vide il Duce sessantasei anni orsono. Il cinema-teatro è risorto com’era e dov’era, il consiglio comunale è tornato nel suo luogo originario, con tanto di tende rosse in velluto e scranni che replicano il design del Ventennio. La lampisteria è rinata: lì passerano i turisti a ritirare la lampada e, una decina di metri più in là, scenderanno con l’ascensore dei minatori nelle viscere di Serbariu (per inciso, la miniera è ancora str

 
Le olimpiadi? Griffate Hitler PDF Stampa E-mail
Scritto da Libero   
Giovedì 26 Agosto 2004 01:00

Furono i nazisti i nel 1936 a inventare la suggestiva cerimonia della fiaccola e a utilizzare per la prima volta il caratteristico simbolo dei cinque cerchi.

Le Olimpiadi? Roba da nazisti. A differenza di quanto si crede comunemente alcuni dei più noti simboli olimpici, e cioè i cinque anelli intrecciati e la staffetta della torcia che dà il via alla cerimonia inaugurale, hanno un’origine […] che li collega all’ideologia nazionalsocialista.

Fu infatti per volontà di Hitler che la cerimonia della torcia venne introdotta per la prima volta nei Giochi Olimpici dl 1936 (che nelle intenzioni del Fuehrer dovevano rappresentare una manifestazione della potenza atletica della razza ariana e della rinascita del Reich tedesco). Non solo, ma fu proprio la poderosa macchina propagandistica nazista a conferire fama a uno dei simboli più amati dagli appassionati di sport olimpici, i cinque cerchi intrecciati. […]

L’idea di utilizzare una fiaccola venne negli anni Trenta a un dirigente sportivo tedesco, Carl Diem, e trovò subito favore agli occhi del Fuehrer, che vide in essa una ricchezza simbolica che ben si prestava a instaurare un legame ideale tra il Terzo Reich e l’antichità classica.[…]

Per quanto riguarda gli anelli intrecciati, fu il Barone de Coubertin (fondatore del Comitato Internazionale Olimpico), a proporli per primo davanti al Congresso Olimpico di Parigi nel 1914. […] Del simbolo si impadronirono però i nazisti, che ne intuirono l’efficacia espressiva tanto che seppero utilizzarli al meglio per le Olimpiadi del ’36. E, come nel caso della staffetta della torcia, anche in quello dei cinque anelli un ruolo di primo piano venne giocato da Leni Riefenstahl, la celebre, discussa e geniale regista tedesca che diresse “Olympia”; un film che si proponeva, anche grazie a questi simboli, di ammantare le Olimpiadi del 1936 di un’aura eroica e mitologica.

La regista tedesca giunse addirittura ad incidere i cinque anelli su un altare di pietra situato in un antico tempio di Delfi, facendo girare così la cove (diffusa ancora oggi), di una presunta, antichissima origine di questo simbolo. […]

… la macchina propagandistica nazista ha funzionato talmente bene che ancora oggi moltissimi turisti che visitano le rovine greche tempestano guide e archeologi con domande relative a come si svolgesse anticamente la cerimonia olimpica della staffetta della torcia.

Libero, 22 agosto 2004

 
<< Inizio < Prec. 361 362 363 364 365 366 367 368 369 370 Succ. > Fine >>

JPAGE_CURRENT_OF_TOTAL

Noreporter
- Tutti i nomi, i loghi e i marchi registrati citati o riportati appartengono ai rispettivi proprietari. È possibile diffondere liberamente i contenuti di questo sito .Tutti i contenuti originali prodotti per questo sito sono da intendersi pubblicati sotto la licenza Creative Commons Attribution-NoDerivs-NonCommercial 1.0 che ne esclude l'utilizzo per fini commerciali.I testi dei vari autori citati sono riconducibili alla loro proprietà secondo la legacy vigente a livello nazionale sui diritti d'autore.